Rileggiamo una paginetta di Massimo Lelj (“Stagioni al Sirente”)
Chi è nato nelle terre del sud tra i due secoli, chi c'è stato ragazzo, si ricorda la fine delle arti popolari, l'emigrazione a mandre, due sventure successe come una sola fatalità, senza una spiegazione, un avviso. Eppure meditate, preparate, deliberate. La gente solo si accorse che lavorare l'antica materia non valeva più la pena. Se la vide morire in mano. E fu costretta a abbandonare le case, a sterrare sotto lo staffile del foreman, vagare senza speranza finché non affittò i suoi corpi alle miniere americane.
Era nata l'industria, e invece di far passare i fili della corrente dove erano i vecchi telai di quercia, i filatoi, le concerie, i torni, le mille botteghe, fabbriche, arti popolari, ereditate dal Regno di Napoli, delle quali la memoria ci è stata purgata come di una pornografia; invece di aumentare il lavoro del popolo, aveva pensato bene di chiuderci in casa, senza commercio possibile oltre il nostro paese; così aveva levato l'aria all'antico lavoro, cacciato il popolo "e poiché tutto era legato, com'è sempre, col lavoro, quelli furono gli anni del guasto disperato".
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2 commenti:
so che sembra non entrarci niente, cose del passato che hanno determinato il presente della nostra Valle Subequana come di tutto il sud d'Italia, mi è sembrato però di vedervi evidenziata l'accettazione, la rassegnazione, qualcosa di simile al sonno di Aligi, o al torpore che determina oggi il rinchiudersi, il non partecipare, il lasciar fare... per questo penso sia bene ricordarlo
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