Non c'è un Master Plan, ma abbiamo udito che occorre riserbo.
Riserbo nei confronti della cittadinanza? Per proteggere chi? Per riservare a chi, per ripartire bene, considerando, soppesando, vagliando, ma che cosa?
Ascoltando certe affermazioni mi sono chiesto se vale ancora la pena di rimanere a L'Aquila, con rappresentanti succubi dei poteri economico-mafiosi, che non hanno certo gli interessi che ha la popolazione dell'Aquila. C'è bisogno di aria fresca, di autonomia, fors'anche proprio a cominciare dal nome "Terremoto di L'Aquila", e non d'Abruzzo: almeno noi cominciamo a chiamarlo così.
Riteniamo grave che il Dr. Chiodi, dopo aver preso l'impegno alla trasparenza e almeno a rispondere alle domande usi i mezzucci della serva per sottrarsi ai suoi doveri di rendicontazione nei confronti dei cittadini.
Chiodi, Cialente, non c'è alcuna chiarezza , poco importa se voluta o subita: inutile attendere, bisogna fare da soli. Siamo a livello di infanti.
Non meraviglia che nel giornale Noi Abruzzo (il foglio della protezione civile) ci si rifiuti di pubblicare l'articolo del prof. Antonello Ciccozzi che di seguito si riporta, e si invita a meditare.
La fiducia è crollata, serve autonomia
Mimetizzare strategie di profitto entro sistemi di aiuto è una pratica caratteristica delle relazioni di tipo postcoloniale, ma è anche quello che il sistema italiano della Protezione Civile ha messo in atto a L’Aquila per i primi dieci mesi del dopo terremoto. Che si sia fatto qualcosa non basta per pretendere ringraziamenti totali e incondizionati: dopo un anno dal sisma L’Aquila è in macerie, così l’altisonante retorica dei record e dei successi del Governo assume le parvenze di una strategia neoCdittatoriale di propaganda politica.
Gli alloggi del progetto C.A.S.E. sono caldi, ma insufficienti, spesso localizzati a spregio del paesaggio, e soprattutto hanno fatto da cavallo di Troia per profittatori di mezz’Italia, deviando di fatto fondi per la ricostruzione fuori dalle aree terremotate. Dopo un anno di aiuti complessivamente orientati prima alla speculazione che alla città, la fiducia è crollata.
Il terremoto dell’Aquila non deve continuare ad essere un’occasione per sfruttare fondi pubblici a scopo del profitto di soggetti privati, perciò il flusso economico dovrebbe essere concentrato verso la città, evitando la dispersione speculativa in catene di mediazione: è la città in concreto ossia le soggettività singole e collettive della cittadinanza che dovrebbe disporre dei fondi, non attori istituzionali esterni ad essa. Autonomia non significa chiusura autarchica: in città servono consigli e sostegno, non servono ordini e speculazione.
In questa situazione chiedere autonomia significa rivoltarsi contro uno sfruttamento speculativo dell’emergenza finalizzato a politiche economiche date a partire da istituzioni extralocali e orientate al profitto; significa rovesciare questo dispositivo per chiedere una ricostruzione sostenibile incentrata su principi culturali e sociali a partire dalla popolazione.
Ad esempio in questi giorni il concetto generale di autonomia va coniugato nel pensare alle macerie in termini di riciclaggio e non di smaltimento, trattandole come risorsa e non come problema.
Autonomia significa prima di tutto pretendere che s’inizi a parlare e a scrivere di “terremoto dell’Aquila”, sopprimendo in toto la subdola denominazione “terremoto d’Abruzzo”: dai discorsi politici e soprattutto dagli atti istituzionali. Non si tratta di portare i fondi per il terremoto d’Abruzzo all’Aquila, ma di distribuire i fondi per il terremoto dell’Aquila su tutto il cratere, a partire dall’Aquila. Autonomia significa, prima di tutto, darsi i nomi e non subirli dall’esterno; perciò questo terremoto dato che è iniziato nell’Abruzzo aquilano e nell’Abruzzo aquilano deve finire si chiama “terremoto dell’Aquila”.
L’Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi
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