martedì 13 aprile 2010

The WASHINGTON POST dell'11 aprile 2010

Un anno dopo il terremoto in Italia, i residenti ricostruiscono da soli

di Laura Benedetti

Testo originale: “The Washington Post” dell’11 aprile 2010

http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2010/04/09/AR2010040903684.html


Che cosa è una città senza il suo centro?

Questo è il tipo di domanda che un terremoto costringe a farsi. Ricostruire una città significa qualcosa di più che ricostruire nuove case e negozi, significa anche ricreare i legami invisibili che tengono insieme le persone. Le città durante un'emergenza hanno bisogno di un aiuto esterno, ma la ricostruzione vera e propria spetta alla gente che ci vive.

Ogni volta che sento parlare di un altro disastro - i terremoti devastanti di Haiti e del Cile o quelli più recenti in Messico e in Indonesia - penso alla mia città, L'Aquila, che è stata colpita nel mese di aprile 2009 dall’evento sismico col più alto numero di morti degli ultimi trenta anni in Italia.

Che cosa è L'Aquila, senza il suo centro? Ho fatto a me stessa questa domanda molte volte la scorsa estate, quando mi sono accampata con una tenda nel giardino di un’amica, proprio al di fuori della sua casa danneggiata. La città giaceva ai miei piedi, a non più di un chilometro e mezzo di distanza, ancora cinta dalle sue mura, i suoi monumenti principali ancora riconoscibili. Ma ogni giorno di più il centro si riempiva di macerie, mentre si svuotavano le promesse di ricostruzione.

Dopo il disastro la risposta del governo, guidato dal primo ministro Silvio Berlusconi, è stata rapida e febbrile. Le periferie aquilane sono state trasformate in cantieri per la costruzione di case temporanee per migliaia di sfollati. Bandiere italiane erano avvolte intorno ai balconi e le famiglie frastornate, trasferite nelle nuove abitazioni – complete di accessori come assi da stiro o cesti con le specialità locali - trovavano una nota di benvenuto di Berlusconi.

Ma la frenesia edilizia ha avuto i suoi aspetti negativi. Terreni posseduti da privati sono stati espropriati, e il paesaggio circostante, che in gran parte era stato ben conservato per generazioni, trasformato in un’accozzaglia urbana. I complessi residenziali costruiti in fretta e furia hanno disperso su un vasto territorio quella che era una comunità molto unita, creando il problema di infrastrutture inadeguate e di “non-luoghi” sociali. Nel frattempo il centro storico medievale, che ospitava abitazioni per 16.000 persone e oltre 1.000 tra ristoranti, negozi e uffici, è rimasto in un lugubre silenzio e inaccessibile.

Sono tornata a L'Aquila nel mese di gennaio, in una città ancora senza il suo centro. Poche strade erano state riaperte, aumentando solo il senso di straniamento. I negozi sbarrati e le impalcature davano l'impressione di una città fantasma. Sbirciando al di là delle barriere si potevano vedere cumuli di detriti e cani randagi.

Quando si ricostruirà la città? Alcune stime sono ottimiste: in 20 anni. Altre no: mai.

La maggior parte degli Aquilani sembravano aver accettato la nuova vita con rassegnazione. Lottavano per soddisfare i propri bisogni elementari, costretti a trasferirsi e addirittura col divieto di partecipare attivamente alla ricostruzione della loro città. Sembravano non avere energie per combattere.

Ma in febbraio, qualcosa è cambiato. Nel corso di un’indagine è stata intercettata una conversazione telefonica tra due imprenditori. Uno di loro, mentre riportava ridendo le notizie del terremoto, gioiva per la possibilità di trarre profitti da tutto l’affare della ricostruzione.

La registrazione - trasmessa dalla televisione e pubblicata on-line - sembrava dimostrare che la risposta all’emergenza non aveva come obiettivo l’interesse dei residenti.

Pochi giorni dopo che la registrazione era stata resa pubblica, un gruppo di Aquilani si è scontrato con la polizia che bloccava il centro della città. Dopo un breve battibecco, hanno buttato giù le barriere e conquistato l'accesso a Piazza Palazzo, una piazza vietata da più di dieci mesi. In piedi su un cumulo di macerie un uomo ha improvvisato un intervento scandito dal motto "Il 6 aprile io non ridevo", mentre molti dei presenti guardavano increduli la loro città, ancora piena di cumuli di macerie a quasi un anno dal terremoto.

Una donna ha chiesto dove erano i suoi concittadini: "Otto secoli di storia ci guardano. Queste rovine piangono. Noi piangiamo. Perché siamo così pochi qui?" In risposta al suo appello, la domenica successiva migliaia di persone si sono ritrovate con pale e carriole per liberare la piazza dalle macerie. Hanno fatto una catena umana, passandosi i secchi di mano in mano per rimuovere i detriti. Questi incontri sono diventati regolari come lo erano le passeggiate serali per il Corso e le fila del "popolo delle carriole" - come sono stati chiamati – si ingrossano ogni giorno di più.

Con l'anniversario del terremoto, una nuova spinta ha messo insieme persone di ogni età, status sociale e credo politico o religioso. Rivendicano il centro della città come irrinunciabile per la propria identità culturale e chiedono di essere parte attiva della ricostruzione. La domenica di Pasqua, gli Aquilani hanno preparato il pasto tradizionale di pane, salame, uova sode e vino. Quest'anno, però, non lo hanno consumato a casa. Lo hanno portato in piazza e lo hanno condiviso con le altre famiglie nella loro città.

Per il "popolo delle carriole" la resurrezione non può più aspettare.

immotamanet99@gmail.com


Laura Benedetti è docente al dipartimento di Italiano della Georgetown University di Washington. L’anno scorso per il “Washington Post” ha scritto il seguente articolo sulle immediate conseguenze del terremoto aquilano:
L'Aquila?  dove sta L'Aquila?

http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2009/04/10/AR2009041001984.html

(traduzione di Giovanna Liberotti jovina@inwind.it, Giovanni Incorvati giovanni.incorvati@gmail.com)

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