Questa storia la racconto in prima persona perché non ci sono altre persone con cui raccontarla. Tecnicamente è un report della mattinata passata ieri al presidio del comitato dei parenti delle vittime della casa dello studente e del convitto dell’Aquila in concomitanza della visita del ministro della Giustizia Angelino Alfano in città presso la Caserma della Guardia di Finanza.
I comitati erano lì per esprimere davanti al ministro la sacrosanta preoccupazione che la legge sul “processo breve” di cui è promotore, possa incidere negativamente sui processi che dovrebbero accertare le responsabilità dei crolli che hanno ucciso i loro figli, la cui salute in quegli edifici pubblici era responsabilità dello stato. Invitati dallo Stato e chi lo amministra a restare lì la notte del 6 Aprile in quella che diventerà la loro prigione in una morte quasi annunciata.
Sono lì mentre ad un Km di distanza lo stato nelle figura del ministro della “giustizia” si trova nel fortino blindato della democrazia: la caserma della guardia di Finanza.
Antonietta, la zia di un ragazzo rimasto ucciso dal crollo della casa dello studente, ha comunicato alla questura lo svolgimento del presidio, e si è accordata con le autorità di farlo all’altezza di quell’incrocio.
Ma questo non è un report. E’ qualcosa di più, o di meno.
A me e a molti altri dei ragazzi con i quali sono venuto da CaseMatte non sembra giusto essere sacrificati in quel modo e dubitiamo che nella concordazione la questura abbia definito dove deve stare e come deve essere, così strettamente, il presidio.
Sotto la pioggia, che è quasi neve, al lato della strada, nel fango, senza neanche poter imboccare lo stradone che porta alla caserma – gli occhi dei figli, nelle foto sui cartelli , uguali a quelli delle madri che portano quei cartelli appesi al collo, sono lasciati ai margini e abbandonati.
Proponiamo di andare almeno dall’altra parte, all’imbocco della strada, che il traffico in parte devi e si lasci la possibilità di comunicare al meglio i contenuti del presidio.
Mi sembra assurdo, che una manifestazione che porti dentro una tematica così forte e giusta, debba essere stipata nell’ombra. E’ stata indetta da persone che hanno perso i figli. Vorrebbe quantomeno esternare le proprie preoccupazioni al Ministro Angelino Alfano. Vorrebbe direttamente da lui delle garanzie che quella legge che promuove non ostacoli la giustizia che loro si aspettano per quelle morti che pesano come un macigno sulla coscienza dell’intera città, e sulla mia.
Perché non siamo sotto quella maledetta caserma? Mi chiedo senza darmi pace? Perché queste persone, se volessero, non possono entrare nella sala “aperta al pubblico” , in cui Angelino Alfano sta parlando. E’ vero lì dentro sono rappresentate da due loro avvocati molto bravi. Ma loro si sono date appuntamento per far vedere che ci sono, che non dimenticano, e chiederanno – sempre – giustizia per i loro figli. Che non sarà un ministretto a potergliela togliere per favorire principalmente gli interessi del suo padrone. Hanno, e abbiamo, tutto il diritto di stare sotto quella maledetta caserma e ottenere la giusta visibilità. Almeno questo mi dico. Che senso ha, altrimenti, quello che stiamo facendo. Ne parlo con alcuni genitori i quali sostanzialmente rispondono che lo farebbero ma non hanno il permesso della polizia. Decido allora di comunicare con il capo della Digos, dicendole che vorremmo almeno occupare la strada, giungere fino all’imbocco del vialone. Lei mi risponde che ha preso accordi con Antonietta che il presidio si svolgesse lì ai bordi della strada, con le foto e i testi delle rivendicazioni beffardamente tagliati dalla pioggia.
Parlo con Antonietta la quale si sente un po’ sotto ricatto: per il presidio c’è la sua responsabilità, la polizia non concede di più e non vuole rischiare. La manifestazione è stata organizzata da lei, grande donna che col suo coraggio a insegnato molto a tutti noi in questo dopo terremoto. Non ci passa per la mente di non rispettarla. .
Eppure ho una gran voglia di parlare con un megafono che non c’è (ma basterebbe utilizzare la voce, urlando) e parlare con i parenti/manifestanti per dirgli che non deve essere la polizia a decidere dove loro possano manifestare ma che la loro reale e legittima richiesta di giustizia, in un paese democratico, può e deve arrivare a essere visibile al Ministro, farsi sentire li sotto dove la solita “cerimonia ufficiale” si sta svolgendo. Ma non ho la forza. Mi piacerebbe che magari qualcuno di loro mi rispondesse malamente a denti stretti, buttando fuori un po’ di rabbia, dicendo che la questione è più la loro che la mia. Sarei contento di rispondere e spiegare pacatamente le ragioni che mi hanno spinto a prendere la parola pur essendo d’accordo con lui – ma non lo faccio. Non ci riesco ma infondo so che dovrei. So che il mio ruolo in quel frangente sarebbe quello di comunicare per prendere tutti maggiore coscienza di quello che stiamo facendo. Rinegoziare i termini. Penso sia giusto perché altrimenti non lo farà nessun altro. Ma non mi ritengo capace. Adesso scrivo con colpa.
Parlo con qualche madre, ho il cuore in gola. Sono comunque contento di stare lì con loro sotto la pioggia-neve che intanto sta diventando neve-pioggia.
Vedo Antonietta che continua a parlare, forse sfogandosi, con il capo della digos. Anche alcuni di noi si rapportano a lei in quanto istituzione più vicina, esecutrice di quegli ordini che di fatto confinano i nostri corpi e la nostra protesta. Sono triste, dovremmo invece parlare tra di noi e organizzarci. Ho un ritornello che mi ronza nella testa e che devo domare per il rispetto che ho verso il comitato che ha organizzato la manifestazione. Il ritornello fa così: CHIEDIAMO GIUSTIZIA CI DANNO POLIZIA QUESTA E’ LA LORO DEMOCRAZIA.
Davanti abbiamo dall’inizio tre macchine della polizia, tre dei carabinieri e una camionetta dei carabinieri. Arriva qualche giornalista. Loro stavano lì ingabbiati dal loro lavoro a riportare l’ultima dichiarazione, a prendere le immagini del ministro e continuare quella narrazione così lontana dalla gente e delle istanze reali. Ci chiedono perché non andiamo lì: gli rispondo “non ce lo permettono”. Penso che anch’io potrei fare quel tipo di corrispondenza. Nessun motivo mi spinge a farlo.
Come per gli altri di CaseMatte sono abbastanza adulto per decidere cosa sia giusto al di là dei riflettori e dei ricatti della polizia. Abbastanza “non-integrato” da avere quei timori che la polizia e la precarietà incutono. Stiamo vivendo insieme da dopo il terremoto scegliendoci la nostra precarietà. Facendoci forza l’un l’altro in autogestione. Non abbiamo paura di prenderci una denuncia. Ci sentiamo ancora uniti. Spero che anche quei parenti delle vittime siano riusciti a farzi forza e che sentano almeno un po’ del nostro appoggio, della nostra solidarietà, della nostra unione.
C’è un controllo molto pervasivo controllo dal 6 Aprile a L’Aquila che scoraggia molto chi vuole reclamare i propri diritti . Un controllo rigido.
Quando con Mattia verso le 11 vado a prendermi il caffè lasciando momentaneamente il presidio, Sara mi racconterà che la digos nervosamente le intimirà nervosamente e con insistenza di dirgli se stiamo andando a cercare un’altra strada per avvicinarci alla caserma.
Quando la pace costa una tale attenzione non vale la pena perché significa che è mantenuta a forza perché senza giustizia.
A. Molletta
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